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Sentenza della Cassazione in materia di segnalazione dei cosiddetti “cattivi pagatori” alla CRIF – Diritti dei Consumatori

Articolo di Omar Saker - Studio Lepore Associazione Professionale

Di recente, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha pronunciato un’interessante sentenza (25/05/2021, n. 14382) in materia di segnalazione dei cosiddetti “cattivi pagatori” alla CRIF (Centrale Rischi di Intermediazione Finanziaria) da parte degli intermediari finanziari.

Sebbene il tema centrale, nella citata sentenza, sia la valutazione della sussistenza della possibilità di estendere la disciplina della tutela del consumatore – prevista dall’articolo 125 del testo unico bancario (d’ora in avanti, T.U.B.) – anche ai casi diversi dalla stipulazione di contratti di credito al consumo, la pronuncia che qui commentiamo ci offre l’occasione di riflettere su di una serie di temi complementari ma essenziali per la materia trattata.

Soprattutto perché, come spesso accade, non si tratta di una sentenza pienamente condivisibile.

Nel corso della trattazione, i temi toccati saranno due.

Il primo è il tema della segnalazione, che affronterò tentando di dare una risposta ai seguenti interrogativi, dopo aver illustrato la normativa generale: la disciplina in questione si applica solo ai consumatori nel credito al consumo, oppure anche fuori da questa ipotesi? E ancora, la circolare della Banca d’Italia n. 139/1991, in materia di segnalazione a sofferenza, può applicarsi anche alle imprese (le quali, come noto, non sono consumatori)?

Il secondo tema che tratterò sarà quello dell’estensione analogica della normativa prima richiamata, valida per la CR (Centrale Rischi), anche alla CRIF.

Faccio prima una considerazione, il legislatore anche nel diritto bancario ha avuto riguardo della posizione dei consumatori, tanto è vero che, nel TUB, il capo II del titolo VI è proprio intestato al “Credito ai consumatori”.

Non poteva essere altrimenti, sicché i consumatori ricorrono sovente al credito bancario e agli intermediari finanziari per favorire il proprio consumo, ad esempio per godere di una immediata disponibilità di denaro finalizzata all’acquisto di un’automobile.

Ed è fuori di dubbio che quella posizione di squilibrio in cui versa normalmente il consumatore sia molto più pronunciata, quando instaura un rapporto con una banca.

Tornando alla sentenza, la controversia nasce dalla stipulazione, nell’anno 2007, di un contratto di mutuo ipotecario tra ——- e il ————– s.p.a.

Quest’ultimo, in qualità di mutuante, segnala il nominativo del mutuatario alla CRIF, stante i numerosi inadempimenti delle obbligazioni di pagamento, più volte sollecitato senza successo. Il mutuatario ricorre al tribunale di Napoli eccependo l’illegittimità della segnalazione, che ne accoglie la domanda affermando che non era stato rispettato il requisito del necessario preavviso in forma scritta, di cui all’articolo 4 della delibera del Garante della privacy n. 8 del 2004 (Codice deontologico e di buona condotta dei sistemi di informazione creditizia), nonché dell’articolo 125, comma 3, del T.U.B. come modificato dal D.lgs. n. 141 del 2010, art.1.

La banca, secondo il tribunale, avrebbe prodotto documentazione non idonea a dimostrare “la ricezione dei preventivi avvertimenti inoltrati al debitore, come invece le incombeva attesa la natura ricettizia di codesti atti, in quanto specificamente diretti alla persona”.

Il ————- propone ricorso per cassazione e la Suprema Corte lo accoglie assorbendo tutti i motivi nel primo dei sette, che è quello che ci interessa in questa sede.

Prima di procedere con la disamina, però, è bene spiegare cosa sia la segnalazione.

Prima di concedere finanziamenti, le banche raccolgono informazioni sull’interlocutore per verificare la sussistenza di referenze utili ad ottenere credito, e lo fanno analizzando delle banche dati.

Siamo, in altri termini, nell’alveo di quello che viene chiamato “Sistema di Informazione Creditizia” (da questo momento, SIC).

I principali data base sono la Centrale dei rischi (CR) e la CRIF (Centrale Rischi di Intermediazione Finanziaria). La prima è un archivio di informazioni sui debiti di famiglie ed imprese verso il sistema bancario e finanziario, ed è gestita dalla Banca d’Italia. La seconda, invece, è un’azienda privata che raccoglie i dati sui finanziamenti richiesti ed erogati in Italia; un soggetto privato ed estraneo alla CR.

Sostanzialmente, le banche e gli intermediari finanziari provvedono alla segnalazione alla CR delle situazioni di irregolarità nei pagamenti e degli inadempimenti dei debitori, al fine di rendere noti al sistema bancario quelli che sono i “cattivi pagatori”, segnalandoli come “debitori inaffidabili” favorendo così la consapevole autodeterminazione negoziale degli intermediari finanziari.

Per contro, per quel che concerne la sola segnalazione CR, sugli intermediari gravano un dovere di avvisare il cliente prima di procedere con la segnalazione.

Si pensi, ad esempio, alla prima richiamata circolare 139/1991 della Banca d’Italia, la quale prevede che “gli intermediari devono informare per iscritto il cliente e gli eventuali coobligati (garanti, soci illimitatamente responsabili) la prima volta che lo segnalano a sofferenza”.

E ancora, l’articolo 125 del T.U.B., che stabilisce al terzo comma che “I finanziatori informano preventivamente il consumatore la prima volta che segnalano ad una banca dati le informazioni negative previste dalla relativa disciplina. L’informativa è resa unitamente all’invio di solleciti, altre comunicazioni, o in via autonoma”.

La ratio della norma è quella di permettere al debitore di risolvere eventuali disguidi e di provvedere all’adempimento, ove ne sia in grado, prima che venga segnalato come cattivo pagatore alla rete informativa degli intermediari finanziari. Allo stesso modo si procede per la segnalazione alla CRIF (15 giorni prima dell’invio della segnalazione al SIC), a cui non si applica però la normativa testé enucleata.

Come premesso, la Cassazione ha accolto il ricorso del ———– e ha quindi annullato senza rinvio la sentenza impugnata. Il motivo assorbente, dedotto dal ricorrente, è che la disciplina della tutela del consumatore si applica soltanto ai finanziamenti al consumo, e non è quindi estensibile all’oggetto del contratto stipulato tra le parti, che trattasi di un mutuo ipotecario destinato all’acquisto di un immobile per somma superiore al limite fissato dal T.U.B.

Nell’accogliere il motivo, i giudici di legittimità non si limitano a richiamare la lettera del comma 3 dell’articolo 125 T.U.B., ma ricorrono ad una argomentazione sistematica, sicché danno conto di come la norma sia inserita nel capo II del titolo VI del T.U.B., che appunto è intestato al “Credito ai consumatori”.

Inoltre, la Corte riporta come, proprio in tale sede, sia collocato quell’articolo 122 che, alla lettera e), esclude esplicitamente “i finanziamenti destinati all’acquisto o alla conservazione di un diritto di proprietà su un terreno o su un immobile edificato o progettato”. Ne deriva che “l’estensione del margine applicativo delle norme al caso di specie non risulta coerente al tipo contrattuale di cui si discute”, per cui la Corte conclude che “non appare giustificata l’estensione della rilevanza effettuale della disciplina dell’onere di preventivo avviso dettata dal Codice di deontologia”.

Il principio enunciato dalla Corte, quindi, è che “in tema di segnalazione alle c.d. Sic, nella vigenza dell’articolo 125 del T.U.B. secondo la versione conseguente al D.Lgs. n. 141/2010, il profilo di legittimità della segnalazione in rapporto all’onere di preventivo avviso al debitore, che, per la prima volta, venga a essere classificato negativamente, assume rilievo unicamente ove si tratti di segnalazioni per operazioni di credito al consumo”. Ne segue che dalla mancanza di prova del perfezionamento dell’avviso presso il destinatario non può esser tratta la conseguenza della illegittimità della segnalazione ove questa riguardi, invece, finanziamenti destinati all’acquisto o alla conservazione di un diritto di proprietà su un terreno o su un immobile edificato o progettato”.

Da quanto detto dalla Corte di Cassazione quindi si deduce che la sussistenza di una intenzione legislativa impedisce il soddisfacimento della condizione per il ricorso, sussidiario, all’interpretazione analogica, ai sensi dell’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale.

Vi è però un passaggio, nel percorso argomentativo della Corte, che desta non poche perplessità. Richiamando la summenzionata circolare della Banca d’Italia, i giudici asseriscono che il dovere di informare il cliente in occasione della prima segnalazione a sofferenza sussista “ove si sia in presenza di un cliente consumatore”; informazione che, ai sensi dell’articolo 125 del T.U.B., dev’essere appunto preventiva. La logica conseguenza di questa ricostruzione è che le imprese vengono escluse dalla garanzia dell’informazione circa la segnalazione a sofferenza. Una conclusione tanto pericolosa quanto clamorosamente errata.

Ora, non c’è dubbio che le imprese, fatta eccezione per le microimprese, non possano essere trattate alla stregua dei consumatori. Tale circostanza è confermata dal codice del consumo, che postula che il consumatore agisca per scopi estranei alla propria attività imprenditoriale. Inoltre, la stessa giurisprudenza è tranchant sul punto, ed esclude categoricamente che le imprese, soprattutto le società commerciali, possano ricadere nell’ambito di applicazione della disciplina prevista per la tutela del consumatore: si pensi alla sentenza n. 17848/2017, con cui la Corte di Cassazione ha negato la qualità di consumatore ad una società a responsabilità limitata, chiamata in causa da un avvocato attore di un decreto ingiuntivo.

L’impresa dalle dimensioni importanti non ha bisogno delle tutele del codice del consumo, le quali sono state pensate per proteggere i contraenti deboli, sicché essa è dotata di strumenti che le consentono di avvalersi dell’ausilio di professionisti in grado di supportarla in questi rapporti giuridici così altamente complessi, riducendo notevolmente l’asimmetria informativa tra contraenti.

Tuttavia, la Corte sembrerebbe aver impropriamente operato una reductio ad unum, sovrapponendo due istituti completamente diversi tra loro: la segnalazione a sofferenza e la segnalazione di qualsiasi altra informazione negativa.

La prima, infatti, indica una situazione finanziaria molto più grave, assimilabile all’insolvenza, che rivela una preclusione quasi irreversibile del pagamento dei debiti. La seconda, invece, può includere anche situazioni meno gravi, come l’inadempimento persistente (e cioè scaduto da più di 90 giorni).

La circolare della Banca d’Italia non è stata letta correttamente, giacché questa tiene ben separati i due piani, che non a caso vengono inseriti in due paragrafi diversi.

Come si potrà notare, essa si limita a fare riferimento al “cliente”, genericamente inteso come interlocutore degli intermediari finanziari, nel momento in cui parla della segnalazione a sofferenza.

Il riferimento specifico al consumatore, invece, viene fatto al paragrafo successivo, in cui si parla di “informazioni negative” (non necessariamente della sofferenza, quindi) e in cui si rinvia all’articolo 125 T.U.B.; ne consegue che, quando si procede con la segnalazione a sofferenza, anche le imprese ricadono nell’ambito di applicazione della disciplina e andranno informate, mentre i clienti consumatori dovranno essere informati preventivamente sia che si tratti di una segnalazione a sofferenza, sia che si tratti di mere informazioni negative.

Una conclusione diversa, del resto, cozzerebbe con la logica giuridica e con la ratio della disciplina. Infatti, le imprese subirebbero una irragionevole disparità di trattamento, oltre ad una carenza di tutela, sicché la segnalazione a sofferenza costituisce una mortificazione della reputazione di un debitore e rischia di precluderne definitivamente l’accesso al credito nel circuito degli intermediari finanziari. Del resto, come i consumatori, anche le imprese ricorrono al credito bancario e possono essere segnalate come “cattivi pagatori”, pertanto non si vede in base a quale ragionevole criterio il trattamento dovrebbe differire.

Veniamo, infine, all’ultimo punto. Si è detto prima che la CR non è l’unica banca dati di cui si avvalgono gli intermediari finanziari, essendo questa affiancata dalla CRIF.

Ora, posto che la disciplina fin qui illustrata si applica solo alla CR, verrebbe da domandarsi se sia possibile – oltre che più conveniente per i consumatori – applicarla in via analogica anche alla CRIF.

L’impressione è che la Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, reputi i due sistemi troppo diversi per legittimare un’estensione della disciplina. In particolare, la Corte rileva che il sistema della CRIF presupponga “l’estensione delle informazioni anche al caso di saldo regolare delle rate mensili, e ancora perché gli intermediari, diversamente da quanto avviene con la centrale dei rischi della Banca d’Italia, non sono obbligati a effettuare le segnalazioni; inoltre si differenzia per il fatto che chi aderisce alla Sic paga un compenso per usufruire del servizio di accesso ai dati dei clienti”.

A mio avviso, i tratti distintivi individuati dalla Corte sono insufficienti per negare l’estensione della disciplina alla CRIF, poiché questi rappresentano dati meramente formali che nulla rivelano a proposito della diversità funzionale tra i due sistemi.

In altri termini, la funzione svolta dai due sistemi è pressoché identica, e consiste nella creazione di una rete informativa che permetta agli intermediari finanziari di riconoscere i cattivi pagatori prima di instaurarvi un rapporto giuridico finalizzato all’erogazione del credito.

I dati raccolti entrano così nel patrimonio cognitivo delle banche e degli intermediari ed ostacolano l’accesso al credito ai debitori inadempienti segnalati. Il carattere privato dei gestori, la mancanza di obblighi di segnalazione e il corrispettivo pagato dagli aderenti al SIC non scalfiscono minimamente questo dato di fatto, quindi non vi sono valide ragioni per escludere categoricamente l’estensione analogica della disciplina.

Del resto, nei settori in cui il privato si sostituisce allo Stato, questi è tenuto a rispettare quelle condizioni minime necessarie a far sì che la “privatizzazione” del servizio non comporti un’involuzione in senso peggiorativo; si pensi al principio di universalità dei servizi.

In altri termini, le ragioni e le regole di una determinata funzione si applicano indipendentemente dalla natura del soggetto che la esercita.

In un mercato sempre più crescente e in cui il ruolo della CRIF è destinato a svilupparsi vieppiù rapidamente, l’estensione analogica della disciplina prevista per la CR garantirebbe così un’adeguata tutela ai consumatori.

La redazione di ASFinanza&Consumo

Riproduzione riservata ©

Per chi volesse consultare la sentenza la può trovare a questo link:Sentenza-cassazione-14382.pdf

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